Auschwitz Ero il numero 220543
Alcuni ricordi li vorremmo cancellare, altre volte ricordare è semplicemente necessario e doveroso, come monito di un passato da non ripetere.
È da poco passata la giornata
della memoria, universalmente riconosciuta nel giorno del 27 gennaio. Memoria
indelebile di uno dei periodi più bui della storia mondiale e per la prima
volta ho voluto dedicare una lettura su questo.
La letteratura, così come il
panorama cinematografico, riguardo la Seconda Guerra Mondiale è sconfinata, un
periodo crudele quanto affascinante che a volte siamo abituati a vedere
romanzato soprattutto sul grande schermo. Altre volte si ha invece
l’impressione che qualcosa sia stia sbiadendo a mano a mano che le
testimonianze viventi spariscono. Ci rimangono quindi le parole scritte da chi
ha vissuto quel periodo lasciandoci il suo ricordo.
Proprio da poco ho recuperato un
romanzo che forse non è tra i più conosciuti, pur avendo un punto di vista
molto particolare. Un libro che ho letto per la prima qualche anno fa e mi ha
colpito particolarmente.
Il titolo del romanzo è
“Auschwitz. Ero il numero 220543” scritto da Denis Avey con Rob Broomby.
In realtà forse definirlo un
romanzo è esagerato, perché anche se è vero che i fatti vengono narrati come
una vero e propria storia va specificato che si tratta di una storia vera,
quindi una testimonianza vera e propria.
Il protagonista, e scrittore,
Denis Avey era un soldato britannico che fu catturato e imprigionato nel campo
di prigionia di Auschwitz. In un certo senso chi arrivava lì come prigioniero
di guerra era un privilegiato, se di qualche tipo di privilegio si può parlare,
ma rispetto a chi aveva semplicemente la colpa di essere nato in un altro
paese, aver avuto un orientamento sessuale diverso o credere in un altro dio,
le condizioni erano forse un po’ meno disumane. Se mai qualche scampolo di
umanità c’è stato nella vita all’interno dei campi di concentramento.
I fatti vengono narrati da quando, arruolato nel 1940 nell’esercito britannico, Avey viene presto spedito in Africa, nel deserto. Una campagna che noi italiani conosciamo bene, perché in quel periodo eravamo i nemici da sconfiggere. Fa un po’ strano pensarlo e soprattutto leggere i commenti di operazioni militari contro i nostri connazionali. La prima parte del libro è dedicata al conflitto nel deserto fino al trasferimento nel campo di prigionia di Auschwitz, come prigioniero di guerra, vedendosi assegnato proprio quel numero che dà il titolo al libro.
Da qui inizia l’angosciante
resoconto della vita all’interno del campo, l’incontro con quelle figure simili
a fantasmi nei logori panni a righe che trascinavano quel poco che rimaneva
delle loro membra, dando l’impressione di potersi dissolvere in polvere da un
momento all’altro.
Nonostante le sue condizioni di
prigioniero fossero già estreme, i racconti che arrivavano alle sue orecchie
dall’altra parte del campo, quella non riservata ai prigionieri di guerra,
erano ancora più strazianti. Avey è ossessionato dal bisogno di saperne di più,
confermare se quei racconti angosciosi che ascolta corrispondono al vero oppure
no, scoprire da dove arriva quell’odore dolciastro che pervade giorno e notte
l’aria di tutto il campo, togliere il velo su quello che succede veramente e
rivelare se davvero l’uomo è capace di trattare un suo simile peggio di un animale.
Inizialmente, nonostante fosse
pronto a raccontare già dal suo ritorno, alla testimonianza di Denis Avey non
venne lasciato molto spazio. Nel momento della vittoria si preferisce dare
risalto agli atti di eroismo piuttosto che al ricordo dell’incubo. Solo diversi
anni dopo si fece spazio il resoconto delle atrocità viste e vissute nel campo.
Un libro che, così come tanti altri, ci permette di non dimenticare e tenere
vivo il monito delle ingiustizie del passato, per far sì che la storia non si
ripeta.
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