Racconto - Nata sulla Luna
"Nata sulla Luna" è un racconto che ho scritto nel 2019 per partecipare al concorso "Scienza Fantastica", organizzato annualmente dal comune di Spotorno (sv). Questa rassegna nello specifico, svoltasi dal 20 al 28 luglio 2019, era incentrata sul tema del ritorno alla Luna, dato che ricorreva il 50° anniversario dello sbarco dell'uomo sulla Luna.
Con mia grande soddisfazione, il racconto è stato selezionato tra i primi sei finalisti.
"Certe volte i mondi interiori dei bambini, individuali e distanti, si incontrano nella dimensione delle speranze e dei sogni più audaci"
Nata sulla Luna
Mi
chiamo Selene e sono la prima bambina nata sulla Luna.
Proprio
per questo mi hanno chiamata così: il mio nome in greco, una lingua parlata sul
pianeta dei miei genitori, significa proprio Luna.
Non
sono l’unica ad essere nata sulla vicina più prossima della Terra, ma faccio
parte di un gruppo molto ristretto di bambini, selezionati ancora prima di
essere concepiti per partecipare al progetto di popolazione di questo pianeta,
denominato “Moon Growth”.
Non
mi è mai stata nascosta la verità, ma io non sono mai riuscita ad accettarla
del tutto; così come non mi è mai stata data la possibilità di scegliere; i
miei genitori si sono trasferiti proprio con lo scopo di procreare e crescermi
qui, su questo piccolo pianeta.
Sono
speciale e non manca giorno che mi venga ricordato, in realtà è una vera
fortuna essere d’esempio per il resto della razza umana: mi chiedo se un giorno
avrò modo di godere di questa gloria. Non posso fare a meno di chiedermi quale
sia la normalità e a volte il desiderio di andare sulla Terra è incontenibile.
Faccio tutte le domande che posso e quando posso, ma le risposte raramente sono
soddisfacenti, ho l’impressione che manchi sempre qualche pezzo di verità. Gli
incontri motivazionali con gli scienziati sono frequenti, ne devo fare diversi
al giorno, non fanno altro che ripetermi quanto sono importante, che un giorno
capirò, che ora devo solo godermi la mia infanzia. Forse ho troppe domande in
testa per essere solamente una bambina di dieci anni.
Vi
racconto una cosa inquietante. Notte e giorno un qualsiasi abitante della Terra
può controllarmi tramite le diverse telecamere della zona; ce ne sono in ogni
angolo, è come se non fossi mai sola in un certo senso. Da un lato dovrebbe
rassicurarmi, ma da un altro mi spaventa e mi rattrista avere così tanti occhi
puntati su di me senza poter incrociare nessuno sguardo, guardare o conoscere
chi mi osserva. A volte, invece, è una motivazione a dare sempre il meglio di
me, per essere d’esempio a tutte quelle persone che un giorno saranno
costrette, o sceglieranno, di trasferirsi qui sulla Luna.
Non
so nemmeno a quale razza appartengo, per il momento vengo paragonata a quella
umana, come i miei genitori, ma è pensiero comune che dovrà essere coniato un
nuovo termine: non so cosa stiano aspettando a darmi un’identità precisa.
Questa situazione mi stressa.
E
poi, queste tute sono troppo scomode. Ogni volta che devo uscire
dall’abitazione è una fatica incredibile, ma senza il mio involucro non potrei
fare più di un passo senza morire congelata o per asfissia.
Quando
sono all’interno di un qualsiasi edificio, invece, posso muovermi liberamente.
Gli scienziati mi hanno assicurato che qui la vita è molto simile a quella
terrestre, il problema è che lo spazio è limitato e da fare non c’è quasi
nulla, quindi appena posso esco a fare una passeggiata o a giocare con gli altri
bambini del progetto, anche se non hanno dedicato molto tempo agli svaghi.
L’unico inconveniente è appunto doversi vestire. La tuta è di un bel rosa
acceso, così come quelle di tutte le bambine, ovviamente azzurre per i
maschietti, mentre gli scienziati hanno tute bianche e i normali civili, come i
miei genitori, verdi. Non posso avere addosso altro che la biancheria intima in
quanto il tessuto isolante aderisce perfettamente alla pelle, la cosa positiva
è che sono stati fatti innumerevoli passi da gigante rispetto al primo uomo
sulla Luna e non sono costretta a saltellare goffamente come un grosso pupazzo
bianco.
Grazie
al pannello di controllo posto sull’avambraccio sinistro, oltre a poter parlare
praticamente con chiunque presente sul pianeta, posso regolare il mio peso
specifico aumentando l’aderenza al terreno e calibrare la temperatura della
tuta.
Smanetto
brevemente con la tastiera touch screen e regolo la temperatura al massimo,
sono freddolosa, ma siamo anche nelle due settimane della notte lunare, quindi
si gela.
Il
peso non lo regolo mai al massimo, mi piace essere fluida nei movimenti e ogni
tanto mi diverto ad ondeggiare a mezz’aria beandomi della scarsa forza di
gravità.
Calo
l’anonimo casco con visiera nera sulla testa e mi preparo ad uscire accedendo
alla camera di decompressione posta in cima all’abitazione, che in realtà si
trova al livello della superficie, dato che per il novanta per cento le case si
sviluppano sotto terra. Così vestita sono completamente irriconoscibile, se non
fosse per il colore della tuta, il numero uno stampigliato sulla fronte del
casco e sul braccio sinistro. Solo i bambini e i genitori sono numerati in modo
da potersi riconoscere; riguardo gli scienziati, invece, non ho mai modo di
sapere se parlo con la stessa persona.
Non
appena si aprono le due porte scorrevoli, che mi permettono di accedere
all’esterno, vengo colta da un brivido che sento risalirmi lungo l’intera
colonna vertebrale.
Il
primo passo sulla grigia superficie ha sempre un qualcosa di epico, o così mi
piace pensare, quindi lo faccio sempre in modo molto teatrale. Guardo la
polvere innalzarsi lentamente dal mio piede avvolgendo lo stivale.
Lo
scenario che mi si para davanti è in grado di stupirmi come se lo vedessi per
la prima volta, di fronte a me la Terra, un’enorme palla colorata che ci guarda
dall’alto della sua imponenza; mi rendo conto di quanto siamo minuscoli in
confronto. Mi imbambolo a fissarla per un tempo indefinito, a bocca aperta,
nella sua magnificenza, nella sua maestosità. A volte, quando mi capita di
essere particolarmente malinconica, colta dalla mia reale solitudine, adoro
andarmi a sedere sopra una delle basse abitazioni, somiglianti a delle enormi
scodelle rovesciate bianche come il latte; ne ho scoperta una che sono quasi
sicura essere cieca alle telecamere: quello è il mio attimo di intimità, che mi
prendo per osservare la nostra vicina ed immaginare come sarebbe stata la mia
vita se fossi stata una bambina normale.
Ma
oggi ho voglia di vedere i miei amici, quindi mi dirigo verso il parco giochi,
non molto ampio a dire il vero, ma essenziale considerando i pochi abitanti. Ci
hanno assicurato che solo una parte del pianeta al momento è stata costruita e
resa vivibile, mentre c’è ancora tantissimo territorio inutilizzato. A volte mi
piace pensare che ci sia qualcun altro oltre questo centinaio di persone.
Mi
muovo saltellando a grandi balzi. Cliccando una combinazione di tasti sul mio
pannello di controllo ho ridotto l’aderenza al terreno e mi sembra di
galleggiare, con un salto in avanti riesco a coprire diversi metri. In poco
tempo vedo già in lontananza diverse tute colorate di azzurro e rosa e una sola
di bianco, leggermente in disparte: uno scienziato intento a digitare qualcosa
su un piccolo tablet che tiene tra le mani. Una volta mi hanno spiegato che
devono controllare costantemente, per la nostra salvaguardia, lo stato dello
scudo lunare, una sorta di atmosfera artificiale in grado di proteggerci dai
venti solari. Quasi invisibile a occhio nudo, un velo azzurro sottilissimo che
ci è vietato oltrepassare.
La
struttura, nonostante sia un parco giochi, non emana molta più allegria delle
varie casupole presenti nel villaggio o delle diverse attrezzature
scientifiche, per ogni costruzione sono stati utilizzati materiali di colore
grigio o bianco, il che rende tutto molto asettico rispetto alle diverse
tonalità che emana la Terra, forse per quello, come tutti gli altri bambini ne
sono così attratta.
Ci
sono uno scivolo, un castello su cui arrampicarsi, diverse altalene e qualche
dondolo, ma nella nostra fantasia tutto quello per noi diventa la nostra
stazione spaziale, siamo astronauti e stiamo progettando la nostra spedizione
sulla Terra, riusciamo a metterci una fantasia e un’immaginazione tale che
spesso stiamo diverse ore a parlare ed organizzare il viaggio come se stessimo
realmente per partire da un momento all’altro.
All’improvviso
non vedo più nulla, davanti a me solo una distesa di puntini bianchi e neri che
mi ronzano davanti alla faccia e un fastidioso rumore che li accompagna,
strabuzzo gli occhi, ma niente, non svanisce questa spiacevole sensazione.
Un’interferenza.
Le
immagini sono sparite per lasciare spazio al nulla.
Vedo
mio padre oltrepassarmi facendo segno di non stare così attaccata alla
televisione. Ha la barba incolta, indossa una tuta che ha visto giorni migliori
e gli occhi arrossati rivelano tutta la sua stanchezza, ma non si perdonerebbe
mai di andare a riposare proprio adesso. Con poca grazia, e una certa fretta,
si posiziona dietro il tubo catodico assestandogli due pugni violenti sulla
sommità, non vorrei essere al suo posto. Con un po’ di fortuna e le buone
maniere di papà, le immagini ricompaiono. L’eccitazione riconquista il suo
volto, a fatica riesce a trattenere le lacrime. Senza mai staccare gli occhi
dal televisore si va a sistemare nuovamente sul consunto divano di casa, di
fianco a mia madre.
Io
rimango ferma, seduta in terra a gambe incrociate, davanti a quella piccola
scatola magica in grado di dare spazio ai miei sogni e lascio nuovamente liberi
i miei pensieri di vagare tra la fantasia. Sono consapevole che stiamo
guardando la storia in diretta, chi l’avrebbe detto che nel 1969 l’uomo sarebbe
andato sulla Luna?
<Ha
toccato!>, mi risuona ancora in testa la frase pronunciata dal presentatore
della Rai, seguito da una cascata di applausi e urla, in studio così come in
casa, mio papà non è riuscito a trattenere un grido di giubilo.
Nonostante
qualche intoppo e diverse ore di attesa, il televisore ci restituisce le
immagini di un giovane Neil Armstrong che si appresta a scendere dalla scaletta
per il fatidico primo passo sul suolo lunare. Ho perso il conto del tempo
passato a seguire questa storica missione.
<Papà!>,
cerco di richiamare la sua attenzione, non riesco a staccare gli occhi da
quello che sto guardando, la mia mente è un turbinio di emozioni, fantasie e
desideri.
Nel
frattempo anche Buzz Aldrin sta scendendo dall’Apollo 11, così ci guida la telecronaca,
l’emozione e la tensione sono palpabili, milioni di persone sono collegate
nello stesso momento e stanno osservando quelle immagini in tempo reale:
virtualmente è come se tutti insieme stessimo compiendo il primo passo sulla
Luna.
Mio
padre forse non mi ha sentito o mi ignora volutamente, gli colpisco un piede
con la mano senza mai distogliere lo sguardo, stregata. Vedo quegli uomini,
goffi e ciondolanti, con le loro tute enormi, passeggiare sulla Luna e ne
rimango estasiata. Stanno vivendo il sogno di un’infinità di ragazzi, di
persone. Il Mondo li sta osservando ed ognuno, oggi come non mai, vorrebbe
essere dentro una di quelle tute bianche.
<Dimmi
amore>, mi risponde dopo qualche istante.
<Da grande voglio andare a vivere sulla
Luna>, dico, sognante.
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